Stupro etnico e rimozione di genere Recensito da "A"

Stupro etnico e rimozione di genere Recensito da

La rivista "A", nella sua sezione "Rassegna libertaria", ha recensito "Stupro etnico e rimozione di genere" di Simona Meriano. Ecco di seguito la parte dell'articolo che riguarda il volume.

Quando lo stupro è etnico / Il caso Serbia

Il saggio di Simona Meriano Stupro etnico e rimozione di Genere. Le vittime invisibili offre uno sguardo antropologico al fenomeno degli stupri etnici, alle complesse implicazioni sociali, culturali, politiche e giudiziarie che li portano ad essere rimossi da tutte le storie di guerra. Gli stupri di massa vengono altresì considerati nel rapporto tra potere e memoria.

Simona Meriano inquadra la tematica nel più ampio contesto della storia del Novecento. Se nel secolo XX lo spostamento delle azioni violente di stupro è avvenuto passando da “diritto momentaneo”, concesso dopo le conquiste di un centro abitato, a strategia politica militare già prestabilita, dopo la guerra di Bosnia-Erzegovina, gli stupri di guerra costituiscono un’emergenza planetaria.

Cinquant’anni dopo Auschwitz, il confl itto nei Balcani si è tramutato in un piano di sterminio della popolazione civile. Per creare la grande Serbia, i villaggi vengono depurati dalla popolazione civile musulmana, gli uomini mutilati e uccisi, le donne stuprate. Tra il 1992 e 1995, lo stupro di massa, la violenza sulle bambine, le gravidanze forzate creano l’illusione di poter modifi care la composizione etnica della Bosnia Erzegovina costringendo le donne musulmane a partorire fi gli di “razza pura serba”.

Tuttavia fallisce il tentativo di creare un nuovo stato etnico puro, poiché i bambini nati dagli stupri sono invisibili, anche se l’identità abortiva risulta ancora più perdente dell’identità invisibile.

L’autrice parte dall’assunto che considera lo stupro etnico espressione sintomatica della fi nzione identitaria voluta da un “noi” maschile, sedicente superiore, che sceglie e defi nisce l’alterità due volte, in base a criteri etnici e di genere. Nello specifi co, nello stupro etnico in Bosnia- Erzegovina, l’identità di genere dominante maschile e l’identità di etnia superiore serba sarebbero arbitrariamente costruite e armate contro la donna, due volte “altra”.


Infatti, nell’immaginario maschile serbo, le donne bosniache musulmane assumono le sembianze delle femmine turche. Colpevoli di tradimento a causa della conversione all’islam da parte dei loro antenati, sono utilizzate per attuare la pulizia etnica in nome della vendetta serba.

Interessante la ripresa della questione sollevata dall’antropologo Ugo Fabietti (1995) sull’ambiguità del concetto di etnia. Designerebbe , infatti, gruppi dotati in modo fi ttizio di una irriducibile identità linguistico-storico-culturale. Nel momento in cui si crea e defi nisce un “noi”, nascono i “loro”, entità sociali costruite, ma vive, che interagiscono e hanno un ruolo nella storia. Il processo mentale di differenziazione potrebbe indurre a un allontanamento fi sico e simbolico dell’altro, per spingersi fi no alla sua soppressione. L’origine della violenza di genere andrebbe quindi ricercata nell’etnicità.
L’uomo serbo che intende conquistare la terra e sterminare il nemico di fatto si identifi ca con lui attraverso il corpo violentato della donna resa madre, colmando così lo spazio che separa la vittima dal suo carnefice.
Viene messa altresì in evidenza la legittimazione di pratiche violente pianifi cate da parte di un’oligarchia politica. Mosso da odio e desiderio, lo stupro etnico è considerato sempre uno stupro di gruppo. L’essere collettivo sovrasta l’uomo singolo. Il gruppo che stupra, connotato etnicamente, si sintetizza nel mito del centauro: la regressione della mascolinità al branco animale e alla forza fi sica data dal numero, come risposta allo smarrimento dell’identità maschile. Inoltre, il gruppo sovrasta l’uomo singolo. È un “noi” che decide e interagisce, nel quale però si perdono responsabilità individuali e penali. Quindi, lo stupro di gruppo non come patologia individuale, ma come potenziale comportamento nei maschi, rituale collettivo per ristabilire la gerarchia di genere e la supremazia etnica.

Se il ricorso alla memoria può mantenere viva una cultura dominante maschile, lo stupro etnico cancella ogni memoria di emancipazione e libertà femminile: stupratori si accaniscono contro le donne bosniache musulmane più colte e con ruoli nel mondo del lavoro, come sindacaliste, burocrati, insegnanti, segretarie, presenze nei quadri dirigenziali o intermedi.

Parimenti, l’attenzione dell’autrice si focalizza sulle vittime invisibili. Nonostante nel 1993, la risoluzione n. 827 del consiglio di sicurezza dell’ Onu abbia istituito il tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia con sede all’ Aja, con il compito di giudicare i responsabili dei crimini contro l’umanità e genocidio nelle guerre balcaniche, e nel 2001 lo stupro venga riconosciuto come un crimine contro l’umanità includendo il reato di schiavitù sessuale, solo nel 2008 il consiglio di sicurezza dell’Onu assumerà una ferma presa di posizione contro gli stupri come arma di guerra.

Ma sussiste ancora oggi il problema del riconoscimento dello status di vittime civili di guerra. Infatti, lo stupro contamina in modo irreversibile chi lo subisce, distrugge l’identità, tuttavia non ne crea un’altra: donne bosniache musulmane sopravvissute allo stupro di massa sono emarginate dalla loro gente, ma nemmeno vengono accolte nella comunità serba. Gli stessi bambini nati dalle violenze non incarnano affatto la “pura essenza serba”, sono individui dall’identità inafferrabile, rifi utati, spesso abbandonati ai margini della società.
Inoltre, si sottolinea quanto nelle società patriarcali, come quella balcanica, venga esercitato il controllo sessista sull’informazione e sui contenuti dei ricordi, favorendo il perdurare della supremazia maschile, il silenzio e il distacco della memoria, mezzi di oppressione per privare un gruppo o una minoranza della propria coscienza identitaria. Il riferimento al contributo dell’antropologo Arjun Appadurai (2001) consente di cogliere meglio gli effetti della comunicazione di massa sull’immaginazione nella costruzione di soggetti sociali e le connessioni tra la propaganda bellica e immagini dello stupro.

La rifl essione è condotta sugli stupri di guerra documentati in rete ai quali non corrisponde un adeguato sviluppo dell’empatia, condizione indispensabile per superare la passività nei confronti del potere sociale e culturale, ed esercitare la responsabilità individuale.
Simona Meriano chiama in campo gli obiettivi della Piattaforma di Pechino approvati nella IV Conferenza mondiale sulle donne (1995). Nel documento si ribadisce un principio fondante: mantenere la prospettiva di genere al fi ne di integrare le tematiche delle relazioni tra maschile e femminile in tutti gli obiettivi strategici che si intendono perseguire, dalla soluzione dei confl itti armati, alla costruzione di politiche per la pace.

A più di vent’anni dalla conferenza di Pechino, seppur nel variegato e accidentato percorso, la prospettiva glocale, con iniziative promosse dal basso che coinvolgano il quotidiano in proposte concrete, è da incoraggiare e incentivare, in un continuo dialogo cercato e coltivato con la componente maschile. Auspicabile partire, ancora, da un approccio educativo e formativo mirato, per aiutare a cogliere anche forme occulte di discriminazione e violenza simbolica veicolate dalla cultura dominante maschile, segnali anticipatori di aumento progressivo di violenza agita.

Una pratica per riconoscere e contrastare modelli convenzionali stereotipati introiettati in modo a-critico nell’immaginario collettivo, che confermano e rinforzano l’omologazione ai prototipi tradizionali.

 

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