Empowerment femminile a Bali: Simona Meriano intervistata da Dol's Magazine

Empowerment femminile a Bali: Simona Meriano intervistata da Dol's Magazine

Empowerment femminile a Bali

I nuovi migranti del tempo globale, sono tutti diversi, ma che hanno  in comune la voglia di cambiamento e il bisogno di trovare nuovi equilibri, personali e professionali. A Bali

Simona Meriano, torinese del 1970, laureata in antropologia, social worker da sempre impegnata in progetti di empowerment femminile e di contrasto alla violenza. Ed ora vive a Bali dove continua ad occuparsi di empowerment femminile... con le balinesi. Ed ha scritto il libro ”Stupro etnico e rimozione di genere”.

Da quando hai cominciato ad occuparti di sociale?
Mi sono occupata in particolare di problematiche relative alla salute, alla migrazione e alla tutela dei diritti delle donne e dei bambini (tossicodipendenza, Aids, carcere).
Socia fondatrice dell’Associazione TAMPEP a Torino nel 2001, sono stata responsabile per 12 anni di progetti di protezione e integrazione sociale delle persone vittime di tratta (art.18 del TU Immigrazione D.lgs 286/98) e mi sono dedicata alla formazione di operatori socio-sanitari, mediatori interculturali, personale di polizia sui temi del traffico di esseri umani, della violenza di genere e delle metodologie di accoglienza delle vittime.

E ora, come mai vivi a Bali? Molti gli italiani?

Mi sono trasferita per motivi personali a Bali due anni fa. Vivo a Ubud, cuore induista dell’isola, dove la natura è di un verde straordinario e la vita animata da una forte spiritualità. Ci sono persone da tutto il mondo e una piccola comunità di Italiani. Siamo i nuovi migranti del tempo globale, tutti diversi, ma abbiamo in comune la voglia di cambiamento e il bisogno forse di trovare nuovi equilibri, personali e professionali.

E cosa fai ora ?
Dopo molti anni vissuti in prima linea, ho dedicato questo ultimo periodo a scrivere e studiare, ma sto già lavorando a un nuovo progetto per il 2016, che coinvolgerà le donne italiane e balinesi.

•Sei una antropologa o criminologa?
Sono un’educatrice sociale, laureata in Antropologia e sto studiando Criminologia (Master di II livello) per passione e perché voglio continuare ad indagare e comprendere il fenomeno della violenza di genere.

Perchè hai scritto ‘Stupro etnico e rimozione di genere’? Una ricerca e studio a tavolino oppure sei andata sul posto?
Mi sono sempre chiesta perché è così difficile per una donna denunciare la violenza sessuale e ottenere giustizia. Lo stupro è l’unico crimine violento in cui la responsabilità morale ricade sulla vittima e non sull’aggressore. Questo vuol dire che lo stupro racchiude intrecci di significati che vanno ben oltre l’atto fisico in sé e il senso della sua gravità dipende da un sistema culturale ben radicato che pone la donna sempre e comunque in una posizione di ambiguità, a prescindere dai fatti. Ricordiamoci che fino al 1949 la violenza sessuale era considerata un semplice atto lesivo del pudore della donna, un reato contro l’onore esoltanto nel 2001 lo stupro è stato riconosciuto come crimine contro l’umanità.

Anche se lo stupro è un reato, la forza di determinati significati legati alla supremazia di genere e all’uso della violenza è rimasta intatta, persino nella percezione femminile. La donna stuprata si vergogna, la sua prima reazione è quella di nascondersi, si sente in colpa. Ho accompagnato tantissime donne a testimoniare contro i loro sfruttatori e i loro carnefici, mi pare che dal primo processo per stupro nel 1979 ad oggi l’approccio colpevolizzante nei confronti delle vittime non sia cambiato. E questo dal punto di vista della parità di genere è sconvolgente. Essere maschio o femmina fa la differenza, anche in tribunale. Ho scritto questo libro perché è necessario parlare di stupri, contro la cultura del silenzio e della vergogna. Ho scelto di farlo ricordando le donne della Bosnia Erzegovina, perché dopo 20 anni dalla guerra ancora non hanno avuto giustizia per le violenze che hanno subìto. Non voglio che vengano dimenticate le vittime della pulizia etnica, le vittime delle gravidanze forzate, le bambine stuprate in nome delle ideologie nazionaliste.

Lo stupro come arma di guerra, quindi. Ce ne parli?
Lo stupro di massa viene usato come arma di guerra per colpire al cuore un popolo, per umiliarlo e obbligarlo a lasciare la terra. Gli uomini che non sono in grado di proteggere le proprie spose, madri e figlie, sono sconfitti in modo assoluto, perdono la nazione nella rappresentazione simbolica che è la donna. Lo stupro della donna è anche lo stupro della nazione, attraverso il possesso delle femmine si colpisce e si prende la capacità riproduttiva del popolo nemico. Il corpo femminile è sempre stato “terra di battaglia” nelle guerre combattute tra uomini per affermare la propria supremazia sul territorio e tracciare dei confini. Eppure la memoria collettiva tende a rimuovere gli stupri sulle donne, come se fossero di poca importanza, una sorta di inevitabile “effetto collaterale” dello stato di guerra. Viene da pensare che omettere avvenimenti di tale gravità non sia un caso, ma che ci sia intenzionalità. Ogni società decide che uso fare del ricordo e la memoria, in quanto facoltà culturale, risponde al potere dominante: l’egemonia maschile è mantenuta anche attraverso il controllo sessista dell’informazione e dei ricordi. La rimozione di genere è l’esclusione simbolica e concreta delle donne da specifici centri di significato e di potere. Purtroppo non si tratta soltanto di un’azione culturale, ma è la rimozione delle persone fisiche, le vittime, che diventano progressivamente invisibili. Basta pensare a cosa sta accadendo in Siria, dove donne e bambine vengono vendute e stuprate nel silenzio globale.


Come possiamo impedire gli stupri se facciamo finta che non esistano?
La rimozione di genere è frutto di una decisione culturale e deve essere contrastata con forza e senza tregua. Bisogna denunciare gli stupri, combattere il silenzio, educare la memoria collettiva al giusto ricordo, soltanto così si potrà cominciare davvero a parlare di Giustizia e ci sarà finalmente riparazione per le vittime.

Il tuo interesse per l’empowerment femminile da dove nasce?
Lavorando in progetti di accoglienza e inclusione sociale ho incontrato molte donne che cercavano una via per liberarsi da situazioni di sofferenza e violenza. Ho imparato dall’esperienza che le azioni di tutela e supporto per essere efficaci devono essere accompagnate da un percorso individuale di trasformazione, in cui si lavora per rafforzare l’autostima, l’autodeterminazione e la capacità di realizzare il proprio progetto di vita. Empowerment in concreto significa “Io posso”, è soprattutto creatività e ha come obiettivo anche l’indipendenza economica. Io credo inoltre in un approccio olistico che integra tutti gli aspetti della persona, corpo, spirito, emozioni, talento e che mira al bilanciamento di energie e potenzialità. Nei percorsi di empowerment è molto importante il gruppo femminile, come spazio protetto in cui confrontarsi, condividere e creare può essere una risorsa preziosa e dare la forza per uscire da situazioni di dipendenza e disagio.

Caterina Della Torre

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