Comunicare: dalla vocalizzazione al linguaggio e dal linguaggio alle lingue
Il libro, di piccolo formato ma denso di informazioni e di idee, nasce dalla penna di Brunetto Chiarelli, professore ordinario di Antropologia all’Università di Firenze - nonché presidente di diverse associazioni scientifiche italiane e straniere e autore di autorevoli testi di antropologia -, e di Simona Marongiu, laureata a Pisa nel 2005 in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo preistorico-antropologico e master in Antropologia Biologica della regione mediterranea presso l’Università di Firenze, interessata alle problematiche etno-antropologiche connesse con l’origine del linguaggio.
Gli autori si avvalgono inoltre della collaborazione di Maria Giulia Fiore e di Francesca Romana Tremonti, per la parte dedicata alla comunicazione materno-filiale.
Il testo è idealmente articolato in tre parti, che analizzano rispettivamente la comunicazione animale e le strutture biologiche e anatomiche del linguaggio, la comunicazione nelle antropomorfe e nell'uomo e, da ultimo, si dedicano a una riflessione sulla possibile origine comune delle varie lingue. Il libro è corredato di numerose illustrazioni esplicative in bianco e nero, di tabelle comparative e di una ricca bibliografia.
Brunetto Chiarelli e Simona Marongiu ci propongono un viaggio, breve ma intenso, alle origini delle lingue e del linguaggio. Lo stile del testo è scientifico e a volte reso difficoltoso da tecnicismi che ne fanno un’opera per “addetti ai lavori”, ma il contenuto affascinante non può che interessare anche il lettore non proprio specializzato.
Se, come ci invitano a riflettere gli autori dalla V pagina con la citazione di G. de Tarde “la lingua è lo spazio sociale delle idee”, prima ancora il linguaggio, verbale o non verbale, è il veicolo della più elementare comunicazione fra i viventi, quando lo scopo non è trasmettere idee ma semplici messaggi essenziali per la sopravvivenza.
E’ proprio da qui che gli autori partono per esplorare il mondo della comunicazione animale e umana, analizzandone le manifestazioni e domandandosi quale sia il punto nodale che differenzia la comunicazione degli umani e dei loro parenti più prossimi tra i primati. Se il linguaggio verbale è il confine che separa uomo e antropomorfe, quali sono le ragioni di questo limite?
Se lo sono domandato parecchi studiosi che nel tempo hanno effettuato ricerche sulle scimmie tentando di insegnare loro il linguaggio umano; Chiarelli e Marongiu ci riferiscono le loro osservazioni, insieme a quelle di coloro che si sono sempre professati contrari a tali esperimenti, non prima di aver spiegato al lettore le basi anatomiche e fisiologiche del linguaggio, da un punto di vista squisitamente scientifico ed evolutivo.
Spesso nel testo gli autori richiamano la nostra attenzione sul valore culturale del linguaggio, come mezzo per comunicare, ma anche per tramandare, quindi come base stessa della storia. Per questo si chiedono, sulla scia di innumerevoli studi effettuati nel corso dei secoli, e alla luce delle più moderne teorie scientifiche ed evoluzionistiche, se e come sia possibile stabilire una origine comune delle lingue.
Il libro si apre con una premessa interessante: le discipline scientifiche hanno identificato nell'uomo un essere superiore capace di memoria storica, capace quindi di tramandare e comunicare elementi culturali ai propri simili attraverso il linguaggio, e comprendere lo sviluppo di questa abilità è uno dei compiti dell'antropologia, oltre che di altre discipline.
Ma qui inizia la sfida: il linguaggio articolato non è che la forma di comunicazione più complessa ma, in generale, la trasmissione di informazioni fra individui non è prerogativa esclusivamente umana e, sottolineano gli autori, può avvenire secondo altre modalità che non il linguaggio verbale o scritto.
Con il termine “comunicazione” si intende infatti qualunque azione compiuta da un organismo per modificare il comportamento di un altro cospecifico. I segnali possono essere di tipo chimico, tattile, visivo, mimico-gestuale, vocale, fino alle forme sempre più complesse di linguaggio verbale, senza trascurare poi il linguaggio scritto. Ciascuna di queste modalità ha i suoi vantaggi e i suoi limiti, spiegano gli autori in modo esauriente.
Se lo scopo del lavoro è approfondire e sistematizzare le conoscenze riguardanti lo sviluppo della comunicazione umana, tenendo però presente quanto appena affermato, il punto di partenza della ricerca saranno necessariamente i Primati non umani, i mammiferi più vicini alla nostra specie, che hanno articolate relazioni sociali, in cui tutti i sensi vengono interessati e coinvolti.
Gli autori si soffermano a considerare le strutture cerebrali subcorticali e corticali che governano l'espressione spontanea e il controllo delle emozioni e sottolineano come la porzione del cervello interessata, il Sistema Limbico, sia una formazione antica e presente in modo simile nelle diverse specie di mammiferi, evidenziando quindi come le basi fisiologiche dell'emotività e del comportamento siano comuni a tutti i mammiferi, uomo compreso.
Il lettore viene guidato in una sorta di interessante viaggio all'interno del Sistema Limbico, al centro del quale si trova l'amigdala, archivio della memoria emozionale dell'individuo e responsabile delle reazioni legate a un istinto di sopravvivenza; solo successivamente il segnale esterno arriverà alla neo corteccia, il cosiddetto cervello pensante, dove si formulerà una risposta più razionale e mediata, più adatta alla situazione.
Si vede quindi come nell'uomo siano presenti le stesse antiche basi comunicative delle altre specie animali, in particolare dei Primati, e come alcune di esse si manifestino del tutto involontariamente, come l'erezione del pelo, la cosiddetta pelle d'oca, o il rossore del viso; altre sono volontarie, come il sorriso, il broncio o varie espressioni di minaccia, e hanno somiglianze notevoli con quelle di molti Primati, come evidenziato da diversi Autori citati nel testo.
Allo stesso modo si può individuare una comune origine per quanto riguarda la trasmissione vocale: gli autori individuano e spiegano analogie sia a livello di strutture nervose sia a livello di funzionalità dei segnali vocali, analizzando i segnali acustici dei Cetacei, il canto degli uccelli, fino alla vocalizzazione dei Primati non umani.
Con questo giungiamo a una tappa successiva del nostro viaggio verso il linguaggio e le lingue: come spiegano gli autori, la capacità di attribuire un determinato significato a un suono è il primo passo per la creazione di un linguaggio simbolico e concettuale: nella mente i suoni (o le parole, se pensiamo a certi pappagalli di cui ci riferisce il testo) corrispondono a segnali correlati a entità specifiche e possono essere usati anche in assenza di tali entità; inoltre, presso alcune comunità animali, anche in cattività, sono stati osservati sistemi di comunicazione più raffinati, in cui il segnale di pericolo era diverso a seconda dei casi.
Naturalmente è necessario distinguere la vocalizzazione dal linguaggio verbale: quest'ultimo non solo esprime, ma descrive concetti astratti, ed è ciò che ha reso possibile lo scambio di informazioni e la trasmissione di cultura.
Ma qual è la storia evolutiva del linguaggio umano? La risposta è piuttosto complessa, poiché l'uomo non si serve di un organo dedicato esclusivamente alla produzione di suoni e si è osservato che la voce e il suono erano quindi a sua disposizione fin dalle origini, pur non essendo utilizzati per produrre messaggi linguistici.
Piuttosto, le funzioni distinte della fonazione e della respirazione hanno trovato adattamenti reciproci per poter aver luogo simultaneamente. Nel tempo quindi l'apparato vocale si è evoluto nell'uomo a livello di posizione della laringe, meccanismi della respirazione, volume dell'encefalo e aumento dei neuroni nella corteccia cerebrale.
E' proprio nell'ampia corteccia prefrontale che risiede la nostra capacità di immagazzinare ed elaborare le informazioni provenienti dall'ambiente esterno. Il testo è ricco di citazioni in materia e spiega esaurientemente le strutture biologiche del linguaggio umano mantenendo vivo l'interesse del lettore.
Un'altra delle domande che ci si pone è se esista anche una spiegazione genetica per il passaggio dalla comunicazione gestuale a quella vocale e successivamente al linguaggio. In altre parole, qual è il particolare che ci differenzia dalle altre specie e ci permette di parlare? Numerosi studi si sono dedicati a questo interrogativo e hanno individuato una possibile risposta in un gene che si sarebbe fissato nella nostra specie tra 200 e 120 mila anni fa, epoca intorno alla quale sarebbero nati i primi Homo Sapiens, che avrebbero sfruttato proprio questa loro nuova capacità per affermarsi in modo decisivo.
Nella seconda parte del libro gli autori riferiscono di diversi esperimenti di comunicazione interspecifica Uomo/Primati. Nel tempo, i tentativi di insegnare il linguaggio umano alle antropomorfe sono stati numerosi, sia attraverso il canale vocale, che attraverso quello visivo-gestuale, usando quindi le strutture concettuali già in possesso dell'animale.
Alcuni scimpanzé hanno dimostrato di poter passare con facilità da simboli a oggetti reali, tuttavia è rimasta la perplessità circa la loro capacità di pensare in termini linguistici, di richiamare quindi il significato di parole in assenza della loro rappresentazione esterna.
E' questo il solco rimasto aperto fra Uomo e Antropomorfe: la capacità di produrre nella mente rappresentazioni del reale implica la capacità di parlare di cose che non sono realmente presenti, ed è un carattere essenziale del linguaggio umano. E' il processo di astrazione, la capacità di parlare per concetti, che è tipica dell'uomo e che in esso si manifesta gradualmente, con la crescita dell'individuo.
Gli esperimenti di questo tipo sono andati incontro a numerose critiche da parte di psicologi e linguisti, nonché di associazioni animaliste, e gli studiosi hanno individuato i diversi limiti di tali strategie. In linea generale, comunque, non si può dire che l'obiettivo di insegnare alle antropomorfe il linguaggio prettamente umano sia stato raggiunto; si sono altresì evidenziati altri aspetti importanti, come l'esistenza di prerequisiti per il successivo sviluppo di linguaggi specie-specifici, capacità di categorizzazione, di usare i segni per ottenere qualcosa o informare, e così via.
In conclusione, quindi ciò che si è osservato porterebbe ad affermare che la capacità comunicativa si sia originata prima della separazione del ramo umano da quello delle antropomorfe; questo implica la successiva domanda cui gli autori cercano di dare risposta: quando e in quale modo ha avuto origine il linguaggio umano? E che cosa si intende precisamente per linguaggio?
Se il linguaggio è la capacità di usare atti simbolici e di costruire nuove strutture cognitive a partire da quelle già esistenti, ha comunque una sua logica elementare, che si basa su oggetto, soggetto, complemento. I primi Ominidi avranno utilizzato basilari forme di comunicazione durante le battute di caccia, indicando in primo luogo la preda, l”oggetto”, poi il soggetto e solo dopo il collegamento fra i due elementi.
Autori e studiosi ravvisano nell'ambiente e nelle abitudini degli Australopitecini un primo stimolo a utilizzare la vocalizzazione, ad esempio per la caccia di gruppo, che necessitava di una coordinazione fra gli individui e, successivamente, anche di una certa pianificazione, che ha comportato necessariamente il prevedere azioni future e quindi un primo uso dell'astrazione.
C'è poi un tipo di interazione fra geni e ambiente, perdurata per tutto il corso dell'evoluzione umana. Mentre le ricerche sull'origine del linguaggio non possono che essere di tipo indiretto, oggi le tecniche di neuroimmagine ci permettono di osservare il cervello umano in vivo e di individuare le interazioni fra aree diverse di esso; questo ha reso possibile la deduzione che l'abilità comunicativa vocale si deve essere originata da una connessione fra attività manuale e simbolo.
Ciò si può osservare, come già detto, anche nell'apprendimento del linguaggio da parte del bambino, per cui il linguaggio altro non è, all'inizio, che una riproduzione rassicurante dei suoni prodotti nell'interazione materno-filiale, per poi evolversi, più avanti, in una sorta di accompagnamento alle attività manuali che il bambino compie, fino ad arrivare a un linguaggio comunicativo vero e proprio e a un uso di nozioni che concernono anche situazioni che egli stesso non ha mai sperimentato in prima persona.
Lo sviluppo del linguaggio infantile rimane comunque oggetto di dibattiti e ipotesi non sempre verificabili. Il quesito fondamentale, se si tratti cioè di una facoltà innata o acquisita, ha stimolato svariati studi, qui esaurientemente presi in considerazione.
Il testo continua affrontando un'altra annosa questione, ancora senza risposta: l'esistenza di una lingua madre, originaria di tutte le altre, e la culla di questa lingua. Dopo un veloce excursus storico sui vari studi in proposito, da Erodoto all'imperatore Federico II, passando per S. Agostino e Dante, fino ai primi lavori sistematici di epoca moderna (1700, 1865), si passa ad alcune considerazioni relative ai due metodi di comparazione linguistica, quello genetico e quello tipologico, usati in questo tipo di ricerche.
La domanda che guida Chiarelli e Marongiu in questa parte del lavoro riguarda l'esistenza di una qualche forma di comunicazione fra i nostri antenati alle origini dell'umanità o quanto meno al momento delle migrazioni dall'Africa agli altri continenti, intorno ai 2 milioni di anni fa, nonostante gli strumenti messi a disposizione dalla linguistica storica non permettano di spingersi oltre i 7000-8000 anni fa.
Il metodo comparativo per lo studio dell'origine del linguaggio risale al XIX secolo e si basa sullo studio delle somiglianze lessicali delle varie lingue, individuando regole di corrispondenza nel lessico di due o più lingue, e utilizzando tali regole per raggruppare in famiglie le lingue che le rispecchino.
Il metodo di comparazione genetica appare più complesso, laddove le regole di comparazione fra lingue geneticamente più distanti, come il tedesco e l'italiano, vengono convertite in regole diacroniche per giungere alla classificazione delle lingue secondo l'eredità genetica e giungere alla ricostruzione di forme originarie di cui non si abbia testimonianza.
Tre tabelle e due mappe illustrano il procedimento e i risultati ottenuti con l'uso dei due metodi. Per quanto riguarda le mappe, molto ricche ed esaurienti, occorre dire che il bianco e nero e l'esiguità dello spazio non rendono loro giustizia e ne rendono poco agevole la consultazione.
Il metodo comparativo, pur con i suoi limiti legati al fatto che dopo qualche migliaio di anni dalla separazione di due lingue la percentuale di somiglianze è sempre più bassa e quindi poco affidabile, dimostra comunque la tendenza a ricercare un'origine monogenica delle lingue, ipotesi tuttora difficile da dimostrare. Un nuovo impulso in questa direzione viene dalla genetica delle popolazioni, che si propone di fare luce sul rapporto fra la distribuzione e differenziazione del DNA mitocondriale, cioè l'elemento ereditario essenziale per la classificazione delle popolazioni, e la differenziazione elle lingue del mondo.
Ipotesi e studi affascinanti, che sono però tuttora incompleti e nebulosi, ci avvertono gli autori, benché alcuni diagrammi proposti nel libro presentino coincidenze interessanti che potrebbero dare indicazioni sulle origini di singole famiglie linguistiche. Altrettanto interessante la teoria di alcuni studiosi, fra cui Luca Cavalli Sforza, riguardante l'avanzamento dal Medio Oriente verso l'Europa, iniziato circa 8000 anni fa, corrispondente all'introduzione dell'agricoltura in Europa, che attesterebbe l'appartenenza della famiglia linguistica Indoeuropea all'epoca neolitica, o tutt'al più alla prima età del rame.
I limiti di tipo cronologico riguardanti la comparazione genetica sarebbero in parte superati dal metodo della comparazione tipologica, che prende in considerazione le somiglianze di forma e funzione e raggruppa le lingue in tipi differenti. Una delle ipotesi formulate sulla base di questo metodo è quella che si fonda sull'osservazione dei creoli, costituiti dalle lingue di nascita recente originate dal contatto fra le lingue europee dei colonizzatori con quelle degli altri continenti.
Nel giro di due o tre generazioni i creoli, a partire da forme improvvisate e rudimentali di comunicazione, assumono un carattere proprio e questo, secondo D. Bickerton, citato in bibliografia, attesterebbe una facoltà innata del linguaggio, in base alla quale la nascita di una nuova lingua può avvenire nel giro di poche generazioni in parti diverse del mondo con modalità del tutto simili.
Tenendo conto che il linguaggio è un fenomeno sociale, la sua mutevolezza è dovuta anche a fenomeni interni alle comunità linguistiche, legati alle condizioni di vita, alle mode, alle divergenze generazionali, e questo implica anche i meccanismi di scomparsa di alcune lingue minori, a causa delle migrazioni o della mancata trasmissione alla generazione successiva. Si pensi, fra l'altro, alla spinta sempre più forte verso la lingua unica, a mezzo di tv planetarie e internet.
Concludendo questa parte del lavoro, considerata la varietà e complessità dell'argomento, gli autori sottolineano la necessità di un approccio multidisciplinare, con l'obiettivo di trovare nella diversità linguistica attuale una prova dell'evoluzione sincronica del mondo e non una differenziazione e subalternità fra culture.
Il viaggio nella storia dell'Uomo alla ricerca delle radici della sua capacità di comunicare non poteva trascurare la scrittura, la cui invenzione ha costituito un salto importante nell'evoluzione, perché ha permesso di trasmettere idee e immagini complesse comprensibili anche ad altri uomini superando i limiti del tempo e dello spazio.
Gli autori dedicano a questo argomento un excursus dai primi graffiti, che si limitavano a rappresentare un evento senza alcuna astrazione concettuale, ai primi esempi di scritture ideografiche. Un passaggio delicato questo, e molto importante, perché l'evoluzione dalla descrizione pittografica di oggetti alla comunicazione di concetti rappresenta il pre-requisito per l'uso di suoni simbolici attraverso l'alfabeto, e quindi, successivamente, la comunicazione di idee a grandi distanze di tempo e spazio, prerogativa delle civiltà complesse.
Un capitolo assai interessante del libro è il settimo, in cui troviamo considerazioni riguardanti la relazione fra le connessioni neurologiche che stanno alla base della produzione di utensili e quelle alla base del linguaggio. Recenti studi sulle impronte endocraniche di resti fossili hanno portato a interessanti deduzioni su una forma di pensiero logico relativa all'Homo erectus.
Da qui gli autori prendono le mosse per spiegare l'origine paleolitica della geometria, legata alla manualità e alla produzione sempre più sofisticata di strumenti litici, e successivamente le origini neolitiche della matematica, legata alla necessità di una successione numerica per le prime attività della nuova semplice struttura economica basata sugli scambi dei prodotti di agricoltura e allevamento.
Viene sottolineato il fatto che, quando comparvero i primi utensili doveva esistere già una qualche forma di linguaggio, anche perché l'ampia diffusione della tecnica della scheggiatura richiedeva presumibilmente una forma di linguaggio capace di descriverla e insegnarla. Un perfezionamento progressivo degli utensili dovette portare poi a un linguaggio sempre più complesso e sofisticato.
In conclusione, quindi, molti fattori hanno giocato un ruolo determinante nello sviluppo e nella evoluzione dell'intelligenza, sempre attraverso una costante interazione fra ereditarietà e ambiente: la struttura e la pressione sociale, la ricerca del cibo, le migrazioni verso aree più temperate, lo sviluppo tecnologico, l'autocoscienza della propria morte, la ritualità, fornendo risposte alle necessità di sopravvivenza e di progresso e generando mutamenti nelle strutture cerebrali attraverso meccanismi genetici, valorizzando l'eterogeneità e le capacità degli individui.
Recensione a cura di Emilia Audifredi
Antrocom