Le NDE di Enrico Facco su Wired.it
Riportiamo qui di seguito l'articolo scritto da Leonardo Patrignani per Wired.it che parla di Esperienze di Premorte e cita il prof. Enrico Facco, autore Altravista.
Esperienze di pre-morte, perché è difficile considerarle solo suggestione
L’argomento è dei più delicati e merita grande rispetto: milioni di persone hanno testimoniato, nel corso dei secoli, la prosecuzione del cammino umano anche dopo l’estremo distacco dal corpo fisico. Quella che Raymond Moody, uno dei pionieri delle ricerche in ambito di premorte (o NDE, near death experiences), chiamava vita oltre la vita. Ho studiato decine di testi a proposito di questa fenomenologia prima di scrivere un romanzo – There, Mondadori, 2015 – che avesse come perno una tematica solo all’apparenza “fantastica”. Mi sono chiesto quanto ci fosse di concreto, non solo di affascinante, in questi episodi, e fino a che punto la scienza potesse fornire risposte chiare. L’amore per simili argomenti mi porta ancora oggi, a quasi un anno dalla pubblicazione del libro, a interrogarmi e approfondire. Solo suggestioni e allucinazioni, dunque?
Un articolo di Jan Hoffman uscito la settimana scorsa su Repubblica riprende in mano la questione e desta la mia attenzione, partendo da un fenomeno ben preciso: le testimonianze dei pazienti terminali a proposito di quelle che vengono definite visioni sul letto di morte. Si tratta di esperienze da sempre sotto la lente degli studiosi di antropologia e sociologia, episodi che hanno molto in comune con le near death experiences catalogate da Moody, pur manifestandosi in un contesto nettamente diverso.
Tali visioni si verificano infatti negli ultimi giorni di vita di pazienti affetti da un male incurabile e, come racconta Hoffman, oggi vengono indagate con cura da équipe mediche come quella del Dott. Christopher Kerr a Buffalo, NY. All’approssimarsi dell’estrema soglia, molti raccontano di aver già avuto un’immagine, un’idea dell’Aldilà. Una sorta di sogno rivelatore, generalmente confortante, luminoso, positivo. Fin qui, la spiegazione più plausibile sarebbe legata alle nostre aspettative, al vissuto personale, a un’ultima analisi del proprio cammino, e potrebbe essere condizionata dal credo religioso di ciascuno di noi.
Quando però il paziente racconta (come ben testimoniato da Sir William Barret nel suo Deathbed Visions) di aver avuto degli incontri durante queste visioni, e la persona presente in scena è – a sua insaputa – deceduta, ecco che troviamo un primo punto di contatto con le NDE di Moody. Anche nelle esperienze di premorte, uno degli aspetti più comuni e frequenti è proprio il contatto con i defunti, ma non sempre si tratta di un genitore o un nonno di cui conosciamo la storia. Spesso si incontrano persone la cui dipartita è a noi ignota, il che conferisce alla visione un aspetto drammaticamente profetico. E tutto questo nonostante l’enorme differenza tra i due fenomeni: se le visioni sul letto di morte capitano a pazienti in fase terminale ma ancora in grado di utilizzare le funzioni cerebrali, le NDE si verificano in totale assenza di coscienza (in seguito ad arresto cardiaco, politraumi, shock di vario genere come quelli anafilattico ed emorragico, embolia polmonare etc.).
Una parte del mondo scientifico, quella più scettica nei confronti di simili esperienze – che fino a qualche decina di anni fa venivano bollate come parapsicologia – sostiene che siano originate da anomalie o patologie cerebrali (l’iconica luce in fondo al tunnel, raffigurata magnificamente nell’Ascesa all’Empireo di Bosch dipenderebbe dall’ischemia della cornea), o che la causa siano i farmaci (sedativi, per esempio) somministrati in ospedale durante determinate fasi della degenza. Sostanze psicotrope in grado di generare fenomeni dissociativi e alterare la coscienza, come nella tradizione sciamanica. Ma di quale coscienza parliamo, se il cuore ha smesso di battere e il paziente non fa registrare alcuna funzione cerebrale?
La diatriba è aperta, ma è fuori di dubbio che negli ultimi anni l’ago della bilancia si stia spostando. Primari di terapia intensiva come Sam Parnia portano avanti ricerche importanti sul tema: dal 2008, con il suo progetto AWARE, Parnia ha coinvolto ben venticinque ospedali americani ed europei per coordinare un’attenta analisi degli episodi raccontati da chi è scampato alla morte passando per l’interruzione totale dell’attività chimica del proprio cervello. Uno dei miei personaggi principali in There, un giovane neurochirurgo, si chiama Samuele proprio per rendere omaggio a Parnia.
Secondo le statistiche almeno il 10% dei pazienti tornati in vita racconta la stessa visione, o quasi (il livello di intensità dell’esperienza è definito secondo un parametro chiamato scala di Greyson, un valore che si ottiene formulando una sequenza standard di domande). A prescindere dunque dalle convinzioni religiose e dal background culturale di ciascuno di noi, quello che possiamo vedere in determinate circostanze è simile. Ed è sempre un momento di grande energia e positività, caratterizzato da una luce molto intensa ma non accecante, dalla rivisitazione in rapida sequenza della nostra vita e dalla totale assenza di percezione dello scorrere del tempo (come testimoniato anche dal grande Aldous Huxley, l’autore de Il mondo nuovo, nel suo saggio Le porte della percezione).
Questo dettaglio è stato uno degli elementi più interessanti da utilizzare come espediente narrativo, una fonte naturale di plot twist. Ma soprattutto, uno straordinario ponte per riallacciarsi alla relatività di Einstein e interrogarsi sulle pieghe dello spazio e del tempo, specie alla luce delle ipotesi quantistiche sull’inversione dei concetti di causa ed effetto. Oro colato, per un autore che si sente pienamente a suo agio in mezzo ai paradossi.
Il tema della coscienza è uno dei più grandi misteri ancora irrisolti della scienza medica. Esperienze di questa natura (che si possono approfondire anche nel saggio Milioni di farfalle, scritto dal neurochirurgo statunitense Eben Alexander) possono insegnarci molto, a patto di osservarle col dovuto rispetto e fare quello che si fa nell’ambito di una ricerca seria: mettere in discussione. Con un approccio scettico, nel vero senso del termine, cioè senza prendere posizione ma indagando, come ha fatto Enrico Facco (professore di Anestesiologia e Rianimazione presso l’università di Padova) nell’ottimo Esperienze di premorte. ll suo testo è stata la mia principale fonte di documentazione per la stesura del romanzo, ho consumato matite a furia di sottolineare. La sua accurata esposizione ha contribuito a farmi innamorare di questo tema.
Perché al di là di qualsiasi speculazione, una cosa è certa, è testimoniata da milioni di persone e costituisce quindi un invito alla riflessione: chi ritorna alla vita dopo aver camminato sul confine è una persona nuova, ha avuto un assaggio di quello che sarà il dopo e da quel momento in poi non ne ha più alcuna paura. Anzi, cerca di dedicare il resto del suo cammino in questa esistenza al benessere altrui, per occuparsi dunque di quello che conta di più, lontano dal gretto materialismo che spesso ci fa perdere la vera e più pura essenza della vita.
Leonardo Patrignani