Intervista a Marco Paci autore de “Le foreste della mente”
Professor Paci, la prima cosa che mi viene naturale chiederle è come mai un docente universitario che insegna una materia scientifica come l’ecologia forestale abbia deciso di scrivere un libro di taglio umanistico, in cui le relazioni tra gli uomini e le foreste sono analizzate sotto il profilo letterario, antropologico, psicologico…
È una domanda più che logica. Il fatto è che a suo tempo io ho frequentato il liceo classico, che mi ha stimolato certi interessi. Che poi all’Università io abbia preso un’altra strada non significa che il mio amore per quelle comunemente definite “scienze umane” mi abbia abbandonato, anzi. In realtà, nella mia esperienza universitaria, in parallelo al percorso scientifico – quello istituzionale – ho continuato a percorrerne uno umanistico. Insomma, sebbene la mia laurea sia in Scienze Forestali, ho continuato a studiare anche guardando in altre direzioni. Finché ho sentito l’esigenza di scrivere un libro sulle foreste senza concentrarmi sull’ecologia o sulla gestione forestale. E siccome le foreste sono fonte di suggestioni, mi sono lanciato in questo percorso con un entusiasmo giovanile.
A questo punto mi viene spontaneo chiederle quanto tempo ha impiegato a scrivere il suo libro, vista l’ampiezza delle tematiche affrontate e la vastità dei riferimenti storici, antropologici, psicologici, letterari e chi più ne ha più ne metta.
Quanto tempo? Direi una vita intera… Tutti i libri letti da ragazzo, le sensazioni e le riflessioni maturate nel tempo sui rapporti tra uomo e natura, i quadri visti nei musei o nei libri illustrati, i documentari sui popoli nativi di foreste: tutto questo si è prima depositato nelle profondità della mia mente, per affiorare in superficie nel momento in cui ho sentito il bisogno di mettermi a scrivere sull’argomento. Diciamo che, per scrivere questo libro, ho dovuto fare, più che un lavoro di ricerca originale, una ripulitura dalla polvere che si era depositata nel corso del tempo sulle mie impressioni. Come dire che, una volta deciso di mettermi a scrivere, sapevo già, a botta sicura, quali fossero i romanzi, i diari degli esploratori, i riferimenti antropologici, i quadri su cui basare il mio trattato. È stato un enorme sforzo di memoria, più che altro. Il resto è consistito nella ricerca dei collegamenti, in un lavoro di elaborazione. Fra una cosa e l’altra ci ho messo un paio di anni a scrivere il libro, ma nel conto andrebbero messi anche gli anni trascorsi dal liceo a oggi.
Nel libro lei mostra un forte interesse nei confronti dei popoli cacciatori, arrivando a sostenere che la caccia è un modo di penetrare nelle profondità dell’animo umano. Ci spiega meglio il concetto?
La caccia può essere un modo di relazionarsi profondamente alla natura. Un modo di penetrare, appunto, nelle profondità dell’animo umano. William Faulkner, nel racconto “L’orso”, ambientato nel mondo dei cacciatori del Nord America preindustriale, descrive l’iniziazione di un giovane alla caccia: il ragazzo, dopo avere ucciso il primo cervo, viene fatto avvicinare alla preda dal caposquadra, il quale cosparge il volto dell’iniziato col sangue dell’animale. Cacciare significa versare sangue: il rito è un promemoria per il ragazzo, il cui comportamento dovrà essere degno delle prede a venire. La caccia, per i popoli cacciatori e per tutti coloro che la vivono non come attività ludica ma come necessità, deve innanzitutto riconoscere la nobiltà della preda, della vittima. Una scuola di lealtà, di coraggio, addirittura di spiritualità. La caccia, così concepita, ha qualcosa di religioso.
E della foresta “femmina” cosa mi dice? Una foresta non solo femmina, ma addirittura erotica…
La foresta è una sublime espressione della natura, e sappiamo che la natura è feconda, e sappiamo pure che la fecondità è un attributo femminile. Natura e donna sono associate nella nostra coscienza, al punto che le epoche storiche che hanno mancato di rispetto alle donne sono invariabilmente quelle che hanno mancato di rispetto alla natura.
Mi fa qualche esempio?
Il Seicento, l’epoca della caccia alle streghe, in fondo solo donne refrattarie a sottostare a certe regole, donne anticonformiste, spesso in sintonia con la natura e i suoi arcani… Il Seicento, guarda caso, è anche il secolo della Rivoluzione scientifica: a quella rivoluzione cui dobbiamo moltissimo in termini di progresso scientifico, ma che ha sancito un diverso atteggiamento dell’uomo nei confronti della natura, che da quel momento in poi è divenuta un oggetto da piegare ai propri fini, alla propria utilità pratica. L’uomo, se è per questo, anche prima si era inserito nella natura per ricavarne vantaggi, ma mai si era arrivati a sostenere il diritto di usarla come si fa con una prostituta – proprio così definì la natura Francis Bacon. Si è passati, insomma, dal concetto di “comprensione” della natura a quello di esercitare “potere” sulla natura. E poi l’epoca vittoriana, ipocrita, sessuofoba, bacchettona, che è stata anche l’epoca in cui, in nome dell’industrializzazione, si devastavano le foreste e vi si costruivano le fabbriche. Non è un caso che Lady Chatterley liberi la propria sessualità in un parco di querce secolari: è un atto di ribellione all’epoca industriale e a tutte le sovrastrutture ipocrite che questa aveva generato. E se ci pensa bene, a metà degli anni ’60 del secolo scorso, non sono nati contemporaneamente i movimenti per l’emancipazione della donna e quelli per la difesa della natura? Chi, nel profondo, rispetta le donne, rispetta anche la natura.
La solitudine delle selve: ne è stata catturata gente del calibro di Jean Jacques Rousseau, Henry Thoreau e, aggiungo io, Alexander Supertramp, il protagonista del film “Into the wild”, per altro ispirato a una vicenda reale. Gente di buona famiglia, gente benestante, gente con la realtà o la prospettiva di un ottimo lavoro e ben inserita nella società. Come succede che gente del genere un bel giorno dica “basta, non ne posso più della mia società e vado a vivere da solo nei boschi”?
Può capitare che la società divenga una gabbia, che non riesca più a incastrare la tua persona negli altri che ti circondano, e allora è come se una grossa mano ti spingesse via dal mondo degli uomini, con cui hai smarrito il canale di comunicazione. Certe persone di spirito elevato si trovano in situazioni del genere non tanto per problemi personali, quanto per l’incapacità di accettare società materialiste, in cui tutto pare sia finalizzato al successo, a far soldi, alla carriera. Società spesso gonfie d’ipocrisia. Allora uno prende e va per boschi, ci va da solo e sa perché? Per ritrovare se stesso: perché anche noi apparteniamo a un tutto che non sappiamo come chiamare, e che potremmo definire una grande anima. O, per dirla con le parole di Gregory Bateson, alla Mente della natura. E allora, frequentando i boschi, si scopre che ogni cosa è collegata all’altra: alberi, funghi, lombrichi, cervi, insetti, microrganismi, aria, terra, rocce, acqua e sole sono tenuti insieme fra loro da innumerevoli relazioni, che possiamo visualizzare come raggi sottili che creano un insieme complesso, qualcosa che unisce e crea armonia. E quando si scopre che in quell’armonia, in quel reticolo di raggi ci siamo anche noi, si viene invasi da un senso di appartenenza cosmica, da un amore sconfinato. Un senso del divino, ecco. Un panteismo magico, lo stesso per cui Giordano Bruno fu arso vivo a Campo dei Fiori nel 1600.
Lei ha parlato di Mente della natura: ci dice qualcosa di più in merito?
La nostra mente è solo una piccola parte di un’altra Mente, quella della biosfera, capace di conoscere, pensare, elaborare e decidere. Che lo voglia o meno, l’uomo platonicamente tende a questa suprema bellezza che pensa il tutto, quella che Bateson chiama la “sacra unità della biosfera”. Bateson sostiene che, una volta assimilato il senso di unità di biosfera ed umanità, quest’ultima non potrà che muoversi alla costruzione di una esistenza in prospettiva ecologica. A salvare l’umanità dal disastro potrebbe essere proprio tale presa di coscienza.
Un’ultima domanda: nel suo libro si dice che le foreste sono frequentate dai “perdenti”. È proprio così o si tratta di una provocazione?
Che si tratti di personaggi reali o letterari, faccia mente locale sui grandi uomini che hanno frequentato le foreste. Don Chisciotte, il Barone rampante, Lady Chatterley, Robin Hood, San Francesco, Jean Jacques Rousseau, i popoli nativi delle foreste pluviali… Tutta gente schietta, ricca di fantasia, poco propensa all’appiattimento su modelli ipocriti, con un profondo senso di giustizia nella coscienza. Gente che, proprio per questo, si pone spesso al di fuori della legge, delle regole, e perciò è destinata all’emarginazione… Insomma, gente propensa all’insuccesso, almeno se intendiamo il termine nell’accezione più comune: quella del potere, del denaro, della carriera. Però, in realtà, è proprio questa gente che manda avanti il nostro mondo, con la vitalità, l’onestà, l’immaginazione, l’amore per la vita. Per tutta la vita, anche quella che palpita nelle foreste e nella loro grande anima. Non dovremmo mai dimenticare di ringraziare persone del genere.
Non posso darle torto. Grazie a lei.
Intervista a cura di Aldo Bianchi
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