Esperienze di premorte, l'articolo di "Scienza e Conoscenza"
Ecco l'intervista realizzata da Marina Gualazzi a Enrico Facco, autore di Esperienze di premorte, e pubblicata sulla rivista Scienza e Coscienza.
Una luce in fondo al tunnel
Già dalla lettura del libro Esperienze di premorte. Scienza e coscienza al confine tra fisica e metafisica avevo capito che il professor Facco è uno di quei rari personaggi animati e spinti nel loro agire e pensare da uno straordinario e puro fuoco: quello della ricerca, del dubbio e della conoscenza.
Ci siamo sentiti via mail e accordati in maniera molto veloce e facile per un’intervista telefonica nei giorni successivi. Quando l’ho raggiunto al cellulare, pronta per l’intervista, mi ha risposto in mezzo a un gran vociare di persone, ed essendo lui di Padova, l’ho immaginato in un affollato caffè di Piazza delle Erbe, che è il luogo del quotidiano mercato cittadino padovano. Siamo stati al telefono un oretta ed è stato davvero come essere lì con lui in quel caffè, in una bellissima piazza italiana, a parlare di scienza e filosofia, delle evidenza della ricerca e del senso della vita e della morte.Enrico Facco è sì un uomo di scienza: medico specialista in anestesia e rianimazione, è anche un grande esperto di ipnosi clinica e di medicina tradizionale cinese. Ma il professor Facco è anche un grande appassionato di storia, di filosofia occidentale e orientale, di Taoismo. Mi racconta che la sua passione per la filosofia Zen e Taoista è nata in lui quasi per caso a sedici anni. Sono rimasta colpita da questo pozzo di scienza, dalla passione che lo anima nel suo lavoro e che lo porta a porsi anche le più scomode tra le domande, a sottoporre a indagine i fenomeni più border line – come quello delle esperienze di premorte che sono il tema di questa intervista. Nella convinzione che la scienza, con il suo metodo d’indagine, tutto può, tranne arroccarsi in posizioni di difesa e chiusura, tranne rifiutarsi aprioristicamente di guardare là dove i fenomeni sembrano scardinare i postulati e gli assiomi su cui si fonda e su cui noi abbiamo costruito la nostra cultura.
Le NDE consistono in una serie di esperienze vissute in condizioni critiche cerebrali associate a perdita di coscienza: in questi casi, quando il paziente torna cosciente, racconta di aver visto l’aldilà, riferisce immagini della vita oltre la vita. Le esperienze di premorte hanno una fenomenologia precisa indipendente dal momento e dalla latitudine in cui avvengono. Se ne trova testimonianza anche nel passato?
Si tratta di un argomento vastissimo che si trova in tutta la cultura umana, in tutte le tradizioni di tutti i tempi e i luoghi. Per fare un solo esempio, possiamo partire dal mito di Er narrato da Platone che parla di questo soldato creduto morto il quale, messo sulla pira per essere cremato, si risveglia improvvisamente e racconta il viaggio che ha compiuto nell’Ade, descrivendo quello che è l’aldilà secondo Platone. Il mito è molto suggestivo e ne consiglio la lettura: Platone descrive il destino che porta le anime a reincarnarsi, a scegliere la loro vita futura in funzione di quello che hanno fatto nel passato, per poi bagnarsi nelle acque del fiume Lete e perdere la memoria prima di tornare sulla terra. In questo mito troviamo diverse analogie con il concetto di reincarnazione del Buddhismo, del Libro Tibetano dei Morti. Si tratta dello stesso clima che poi ritroviamo nella tradizione cristiana con la trasmigrazione delle anime descritta da Origene, padre della chiesa che ipotizzò uno stadio intermedio tra Inferno e Paradiso. Le teorie di Origene vennero spazzate via dal Concilio di Costantinopoli, con il quale la Chiesa cassò tutto ciò che aveva a che fare con il concetto di trasmigrazione e reincarnazione, dato che nel Nuovo Testamento non ne veniva fatta menzione alcuna. La Chiesa arriva così al Tredicesimo secolo con un vuoto dottrinario incolmabile, dal momento che si pone lo stesso problema che si era posto Origene: ed ecco che in questo periodo viene propriamente “inventato” il Purgatorio. Si tratta dunque di un fenomeno che ha una portata culturale e filosofica di dimensioni enormi e che riguarda prima di tutto i concetti di vita, morte e di realtà per come noi li percepiamo. Le NDE, ovvero le esperienze di premorte, si inseriscono in questo contesto, anche se non ci dicono nulla al momento rispetto alla possibilità di una vita dopo la morte, dell’esistenza della reincarnazione o altro di questo genere. Le NDE hanno un alto valore cognitivo in questa vita indipendentemente da quello che sarà il destino del nostro corpo fisico alla fine dell’esistenza. Il problema del dopo la vita fisica è enorme, irrisolvibile, è il grande mistero della condizione umana: il mistero dei misteri. La morte comunque non può essere ridotta a meccanismi biochimici e biologici – sono fondamentali e importantissimi soprattutto dal punto di vista medico per capire cosa sia la vita e la morte – ma non possono esaurire il problema.
Fino a pochi decenni fa le esperienze di premorte non venivano prese in considerazione dalla scienza. Oggi, come lei stesso testimonia con le sue ricerche, sono considerate un fenomeno di interesse dal punto di vista scientifico. Cosa è accaduto?
Le NDE sono state rifiutate a lungo dalla scienza come tema di ricerca e di indagine in ragione del fatto che la scienza per come noi la conosciamo, nel suo paradigma riduzionista e meccanicista, si basa su postulati e assiomi indimostrabili che hanno però una potenza culturale enorme. Le NDE fanno parte di quei fenomeni strani, di confine che rimangono a lungo in quarantena in virtù proprio della loro particolarità: non si sa come avvicinarli, classificarli, studiarli. Questo però non significa che non esistano. Le NDE, così come molti altri fenomeni non ordinari della coscienza, sono rimaste a lungo dominio di un terreno incerto che faceva riferimento in parte alla filosofia, in parte alla religione, in parte alla parapsicologia. Per tutte le manifestazione non ordinarie della coscienza dobbiamo capire cosa sono a livello fisiologico e che significato hanno: tutto ciò che noi non sappiamo come gestire, che non fa parte del mondo rassicurante che conosciamo rimane un po’ al di fuori dei campi di indagine della scienza e viene scotomizzato, escluso in quanto non considerato degno oggetto di indagine.
Abbiamo una fenomenologia e una casistica specifica di questo fenomeno?
L’esperienza di premorte oggi è l’esperienza di chi è in condizioni critiche (arresto cardiaco, coma, emorragie gravi) il quale con la terapie intensiva moderna viene rianimato e racconta questo tipo di esperienze, che sono caratterizzate dagli stessi elementi, in tutto il mondo a tutte le latitudini.
In questo senso le NDE sono un sottoprodotto delle moderne tecniche di rianimazione. Era sorto in Inghilterra, verso i primi del Novecento, un interesse di studio verso queste manifestazioni. Poi la cosa è morta: nella visione dominante, riduzionista e materialista, della scienza, questi fenomeni sono stati visti come cose di nessuna rilevanza. Se noi adottiamo l’assioma fondamentale delle neuroscienze per cui la psiche e la coscienza sono un epifenomeno dei circuiti cerebrali, tutto quello che succede nelle NDE è stato attribuito a disordini cerebrali prodotti dal danno acuto cui il soggetto è andato incontro, come se ci trovassimo di fronte a una sorta di delirium o allucinazione: fenomeni irrilevanti o semmai di natura psichiatrica e comunque che non interessano dal punto di vista clinico. Dal punto di vista clinico quello che interessa è curare il corpo, riparare il danno e rimandare il paziente a casa.
I medici non hanno mai chiesto di queste cose perchésono al di fuori dell’interesse clinico, i pazienti, da canto loro, le hanno sempre taciute per paura di essere presi per pazzi. Due dei venti casi di NDE che analizzo nel mio libro, quindi il dieci per cento, sono stati sottoposti a trattamenti con psicofarmaci per aver raccontato la loro esperienza di premorte. Tutto questo ci fa riflettere su quanto il pregiudizio culturale sia influente in questi casi: chi racconta un’esperienze di premorte può essere preso per pazzo. Nella scienza un conto è definire quale sia il confine della stessa, un conto è negare la realtà di un certo tipo di esperienze solo perché non le puoi indagare con il metodo scientifico positivista: è un atteggiamento po’ riduttivo, se non integralista.
L’aspetto forse più affascinante delle NDE è quello delle OBE. Di fronte a racconti di questo tipo come lei stesso scrive nel libro possiamo o rigettarli come non veri (ma questo si scontra con i dati sperimentali raccolti), oppure ammettere che al momento non abbiamo gli strumenti e le conoscenze per capire di cosa si tratta.
Le prospettive aperte da alcuni concetti della fisica quantistica, come ad esempio l’entanglement, che tipo di luce possono gettare su un argomento comele OBE?
Possiamo pensare che le attività della coscienza non abbiano sede solo all’interno del nostro cervello?
Rimaniamo in un terreno scientifico ed empirico ben saldo, senza fare speculazioni di tipo metafisico, però aperto ad accettare i fatti quali essi sono e a non rifiutarli perché non collimano con le credenze scientifiche cha abbiamo oggi. La scienza medica e le neuroscienze nel Ventesimo secolo hanno definito che la coscienza è un epifenomeno dei circuiti cerebrali: questa è una posizione fisicalista, ma assiomatica, non è dimostrata. Ogni conoscenza intellettuale parte da degli assiomi indimostrabili e potrebbe anche essere cha la condizione di partenza sia un po’ differente da come l’abbiamo immaginata. Quando l’assioma salta, salta tutto il mondo che ci avevamo costruito sopra. Questo è già successo in fisica, ad esempio, con gli assiomi del tempo e dello spazio assoluto di Newton: nel nostro mondo fisico funzionano ancora bene, ma quando ci postiamo nel mondo quantistico non sono più adeguati a descrivere i fenomeni. Lo stesso accade per la coscienza: noi abbiamo un’evidenza empirica della coscienza come residente nel cervello. Abbiamo anche un’evidenza empirica del fatto che quando le aree cerebrali funzionano in un determinato modo sei cosciente, quando alcune di queste si rompono vai in coma, quando si riaggiustano ritorni cosciente. Questo è verissimo, ma non dimostra che la coscienza sia residente nel cervello. Facciamo un’ipotesi alternativa che ho messo nell’ultimo capitolo del mio libro e ho detto chiaramente che non intendo sostenerla, è solo da porre perché sia falsificata: se non si riesce a falsificarla non è possibile però accettarne a priori un’altra, in quanto tutte possono essere plausibili. Se il rapporto tra il cervello e la coscienza fosse simile a quello che c’è tra un televisore e i programmi televisivi, la fenomenologia sarebbe identica, perché quando la televisione funziona si vedono i programmi, se si rompe non vi vedono più, se si ripara si vedono di nuovo. Solo che i programmi girano nell’etere anche quando la televisione è rotta. Allora questa fenomenologia della coscienza ci fa pensare giustamente che essa risieda nel cervello, ma questo non lo dimostra.
Cosa possiamo dire sulle OBE, che sono un fenomeno vasto perché alcune persone dichiarano di averle anche in condizioni di normalità in seguito a meditazione o trattamenti ipnagogici: ci sono quattro casi segnalati nella letteratura mondiale nell’ambito di studi rigorosissimi, uno di questi è stato pubblicato su Lancet e un altro è uscito recentissimamente su Resuscitation.
Si tratta di racconti di pazienti che quando sono usciti dal coma hanno descritto tutto quello che è successo durante la fase di arresto cardiaco, stato in cui l’ECG è piatto, il flusso cerebrale c’è ma è talmente basso da non permettere alcuna forma di coscienza e la morte è incipiente. Siamo in una condizione in cui non sarebbe possibile avere alcun tipo di esperienze di coscienza, secondo quello che sappiamo. Ebbene questi pazienti non solo hanno avuto esperienze, non solo le hanno riportate, ma hanno anche descritto con precisione quello che è accaduto durante la fase di arresto. Un ultimo caso descritto con precisione da Sam Parnia (medico, specialista in anestesia e rianimazione, è una delle massime autorità sullo studio scientifico della morte, sul rapporto mente-cervello umano, e sulle esperienze ai confini della morte, Ndr) ha descritto e riconosciuto poi il bip bip del defibrillatore automatico. Da questa descrizione e dal fatto che il ciclo di defibrillazione dura tre minuti, Parnia conclude che questo paziente ha avuto almeno tre minuti di coscienza e di percezione del mondo esterno durate la fase di defibrillazione ventricolare, il che non è spiegabile con le nostre conoscenza correnti di neurofisiologia e di neuroscienze. Però non possiamo rifiutare questi fatti perché non collimano con i nostri assiomi e le nostre credenze del momento: sono pochi, pochissimi casi, ma sono così ben documentati da far porre lecitamente il dubbio che la coscienza sia realmente sempre e solo residente nel cervello e solo un mero epifenomeno dei circuiti cerebrali, che è la visione fisicalista tradizionale che conosciamo.
Lei è specializzato in anestesiologia e rianimazione per cui immagino che i confini tra la vita e la morte tra la coscienza e l’incoscienza siano per lei territori all’ordine del giorno da diverso tempo. Nonostante questa vicinanza lei ha deciso di indagare senza pregiudizio un tema di confine come quello delle NDE spesso relegate nei territori della para psicologia. Inoltre si occupa anche di Medicina Tradizionale Cinese e ipnosi.
Che cosa l’ha spinta verso un tema così spinoso come le NDE e verso discipline che per la maggior parte dei medici ancora cozzano con il sapere scientifico?
Per quel che riguarda le NDE, diciamo che è proprio lavorando sul confine che si ha maggiore possibilità di scoprire qualcosa di nuovo e di interessante, rispetto a quello che è il core di ogni disciplina. Ma, al di là di questo, ci sono ambiti di ricerca molto interessanti che si trovano ai confini tra varie discipline e proprio per questo sono difficili da studiare, anche dal punto di vista pratico delle misurazioni e della costituzione dei team di ricerca. Eppure in questi ambiti ci sono fenomeni clinicamente molto rilevanti che vengono sottodimensionati e sottostimati e poco studiati proprio perché non fanno centralmente parte della disciplina di chi ci lavora. Io ho sempre lavorato in questi ambiti interdisciplinari e di confine. Quando ho iniziato a occuparmi di coma, in rianimazione nel 1980, ho iniziato a studiare di neurofisiologia perché secondo me studiare l’attività elettrica del cervello in quei momenti era un’attività fondamentale per sapere cosa il coma fosse e avere informazioni sulla prognosi. All’epoca si diceva che l’elettroencefalogramma non serviva a niente e non dava alcuna informazione, il problema era come veniva letto e interpretato correttamente. Cosa accadeva: il neurologo e il neurofisiologo non vivevano in rianimazione quindi non vedevano i pazienti in coma, l’anestesista non si occupava di neurofisiologia quindi rimaneva un vuoto. Io in questo vuoto ho fondato venticinque anni di analisi e studi che hanno dato buonissimi risultati. Per quello che riguarda la Medicina Tradizionale Cinese posso dire che non l’ho studiata e praticata per avere uno sbocco professionale, ma ho cominciato a interessarmi e leggere di filosofie orientali quando avevo sedici anni: questo è un fatto un po’ misterioso per me perché nessuno mi ha mai spinto verso questi temi parlandomi della Cina o dell’Oriente. Ma da allora non ho mai smesso di studiare la filosofia Zen e il Taoismo che ancora oggi sono le mie letture preferite. Nel 1972 ho conosciuto l’agopuntura e ho iniziato a studiarla e praticarla, cosa che per allora era come pensare di andare ad abitare su marte oggi. Questa medicina si basa su presupposti e assiomi che sono completamente differenti dai nostri e che per noi sono anche difficili da comprendere in maniera diretta, ma funziona e non è priva di fondamento: ci sono pazienti che rispondono meglio a questo tipo di medicina che non alla nostra, soprattutto per quel che riguarda i disturbi funzionali.
Abbiamo ospedalizzato la nascita e la morte, le abbiamo allontanate dalle nostre case, dall’ambiente familiare, dai riti che le accompagnavano con il risultato che ne abbiamo sempre più paura...
Questo è un grosso problema e si tratta di un fatto culturale che noi stessi abbiamo costruito. Abbiamo avuto uno sviluppo tecnologico velocissimo, infinito, con cui non riusciamo a tenere il passo, contestualmente le religioni sono scese di valore nell’immaginario collettivo mentre la scienza e il pensiero laico e materialistico hanno acquisito sempre più credito. Ma in tutto questo non abbiamo chiaramente superato l’angoscia della morte, anzi si è accentuata perché non avendo più una visione che comprenda l’oltre l’esistenza fisica, si arriva al punto in cui la morte diventa la minaccia di annientamento. La morte è stata scotomizzata nel Ventesimo secolo, è uscita dalla nostra vita di tutti i giorni: in questo senso la morte è come la pornografia, è illecita, è fuori dalla scena, è oscena. Siamo preda di un rifiuto totale e un’attrazione totale per la morte per cui passiamo tutta a vita a leggere di cronaca nera, a guardare film di morti ammazzati e così via. La gente vive nell’illusione di essere immortale e quando si trova di fronte a una malattia o agli anni che passano e quindi alla fine che si avvicina, arriva la tragedia. È la tragedia dell’Ego che si vede annientato e che non ha strumenti per capire che senso ha la sua vita, la quale ha senso solo se si ingloba nel concetto di vita anche quello di morte. La morte non è né una tragedia, né il contrario della vita: è solo una sua parte inscindibile e se così non fosse, ovvero se avessimo vita eterna, ecco quella sì che sarebbe la vera tragedia: il peggiore degli stati totalitari, la peggiore delle condanne, un ergastolo eterno.
Marianna Gualazzi